Moss Of Moonlight – “Seed” (2012)

Artist: Moss Of Moonlight
Title: Seed
Label: Cascadian Alliance
Year: 2012
Genre: Folk/Black Metal
Country: U.S.A.

Tracklist:
1. “Faran”
2. “Existent No More”
3. “Together, United”
4. “Zen”
5. “Follow The Owl”
6. “Call Of The Mountain”
7. “Cascadia”
8. “The Grand Parcel”
9. “Internal Epilogue”
10. “The Trail Beyond The Dying Sun”

Credo che calcolare la quantità di dischi ascrivibili all’Atmospheric Black Metal che il sottoscritto si è sorbito più o meno volontariamente nel corso del 2012 sia abbastanza impossibile, dato che uscire dieci anni or sono con un prodotto mirato a produrre un effetto di sorpresa avvinghiante che potesse lasciare a bocca aperta e ammaliare attraverso costruzioni fatte di layer atmosferici rappresenta a quel punto abbastanza la norma: parecchi infatti si buttarono senza ritorno in questo percorso a metà strada tra estetica e suono, trasmutando in musica tutto il pathos ispirato magari dalla territoriale situazione politica e sociale in cui vivevano, dalla onnipresente forza della natura oppure dalle quattro mura della propria cameretta. Senza dare troppa importanza al peso della delusione di chi scrive derivante dal fatto che nessuna formazione padana si prese invece mai la briga di decantare, ad esempio, il fascino estremamente analogo e così adatto al genere com’è in tal senso quello della nebbia che abbraccia fedele le valli del nord Italia, ci furono comunque una serie di band che da uno scenario tutto naturalistico e dal personale contatto con esso riuscirono ad estrapolare una vera arte sonora al di sopra di una media inflazionata che, durante il lustro successivo, sarebbe diventata a dir poco satura; in alcuni e selezionatissimi casi, un’arte talmente viscerale e spontanea da far sì che molti si fecero riconoscere per uno o al massimo due exploit musicali prima o di finire definitivamente nell’oblio (si voglia pensare, tra i più particolari e nel solo continente che andiamo a prendere in oggetto, agli Skagos tra “Ást” ed “Anarchic” o ai Fauna anch’essi ormai dispersi dal 2012 di “Avifauna”), oppure prima di non riuscire più, molto banalmente, a ripetersi su simili livelli già raggiunti dalla corrente nel giro di pochissimi anni.

Il logo della band

Come avrete a questo punto della lettura intuito o capito, l’analisi di oggi verterà sulla presenza della natura sul pentagramma in correlazione ad una particolare area geografica americana che tra il 2008 ed il 2014 diviene nello specifico nota in ambito Metal per essere identificata in una bioregione chiamata Cascadia: un’utopia, filosoficamente parlando, un tentativo di resistenza al mondo moderno intravisto in questa sorta di oasi di mezzo in cui la primordialità al servizio della vita regna sovrana; un cuscinetto tra poteri politici ed economici dove invece la più prosaica materialità viene accantonata in favore di un ritorno alla quintessenza dell’esistenza. Questa sezione di territorio geograficamente compresa tra Washington e l’Oregon diventa infatti automaticamente fonte di ispirazione per chi vuole introdurre, come la coppia di vita formata dai coniugi Cavan Wagner e Jenn Grunigen (i quali le dedicano non soltanto la prima parte spirituale e concettuale del loro operato in musica, ma persino la quasi programmatica Cascadian Alliance con cui prodursi), all’interno delle proprie composizioni un tratto più o meno marcatamente folkloristico e atavico che non è contraddistinto da sonorità direttamente popolari -com’è più solito fino a quel momento in Europa- ma piuttosto preferisce appoggiarsi ad una palette di suoni letteralmente organici costituiti ad esempio dal canto dell’acqua, da quello del vento, dal fruscio delle foglie in risposta, dagli echi della fauna nascosta nel sottobosco oppure da strumenti antichi come lo scacciapensieri o delle caratteristiche percussioni e tamburini dal sapore sciamanico senza tuttavia ricalcare una precisa tradizione che sia culturale o un retaggio in particolare che non sia quello più universalmente animista.
Il termine organico non è casuale, come sa bene chi ha vissuto l’ascesa e affermazione del movimento intero una decina di anni fa, né tantomeno sostituibile: è al contrario strettamente essenziale nella semantica dei Moss Moonlight ed è essenziale per legare tra loro la totalità delle tracce che compongono “Seed”, disco di debutto della band americana che già dal titolo e dalla copertina dichiara a cielo aperto la chiave di lettura prescelta del disco. Il carattere terroso del titolo stesso e delle liriche, visivamente legati all’immagine di una capanna di legno dispersa nell’oscurità totale di una foresta, immerge immediatamente in un contesto primitivo, ancora incontaminato, ma soprattutto semplice. La forza di questo tipo di album era -ed è, dopo due lustri di sviluppo e in un certo senso morte del suo filone- anche (se non soprattutto) la capacità di estraniare totalmente dalla velocità del mondo moderno, troppo reale, e di trasmettere quella sensazione invece astrale di pace che si proverebbe ad essere in una foresta nel silenzio più totale accompagnati solamente dallo scoppiettio di un fuoco. Le fiamme crepitanti del resto non potevano proprio mancare; non dimentichiamoci che, se il folklore e il carattere naturalistico sono elemento di spicco poetico all’interno di “Seed” come della breve ma brillantissima parabola vitale dei Moss Of Moonlight sotto questo nome (dopo il successivo EP “Winterwheel” mutati in Felled con non poche differenze stilistiche e alternativamente qualitative), il motivo primo per cui siamo qui oggi a discuterne in occasione di un decennale è principalmente dovuto alle fiamme rappresentate da una componente Black Metal che suona di assoluto livello: quest’ultima sì diluita e rallentata, ma al contempo estremamente incisiva ed efficace, capace di essere il miglior tappeto e veicolo possibile per tutti quegli aspetti caratterialmente delicati ed eterei associabili ad un infinito paesaggio incontaminato. Questo contrasto tra cielo e terra, tra dolcezza ed asperità è un dualismo essenziale per mantenere vivo il disco traccia dopo traccia; infatti la sensazione che si percepisce costantemente è proprio quella di due elementi che si bramano e intrecciano tra di loro fino a formare un flusso musicale in grado di attirare con la sua sorprendente concretezza e tangibilità anche chi magari non è mai stato particolarmente avvezzo a queste sonorità Cascadian o alle più dilatate e atmosferiche in generale – così come, allo stesso tempo, la loro grandezza compositiva è capace di irretire anche coloro non totalmente inclini alla musica Folk nel Metal così come ascoltata in Europa in quegli anni.

La band

Il termine Cascadian Black Metal, ce lo conferma (servisse) nel 2017 uno dei suoi più grandi e celebrati autori quale Aaron Weaver in un’intervista, ma è del resto cosa chiara anche al solo ascolto fin dal 2012, è qualcosa più di giornalistico che altro e all’epoca dell’uscita di “Seed” è già rappresentato nella sua piena maturità da tutte le caratteristiche musicali e sceniche descritte nel paragrafo precedente: in breve abbiamo un’ambientazione a tema squisitamente naturalistico devota alle foreste di conifere e ai crinali di quelle montagne del Pacific Northwest su cui queste crescono e prosperano, Metal estremo ritmicamente dilatato con sconfinamenti non rarissimi nel Doom, momenti più o meno marcatamente epici, qualche tocco Ambient e qualche più o meno sporadica ed esplicita influenza Folk. Nel caso specifico e in verità più unico che raro dei Moss Of Moonlight di “Seed”, questa influenza è forse portata alla sua sublimazione e a splendere quanto in nessun’altra stella del suo panorama di riferimento. Al giorno d’oggi, quantomeno, non risulta infatti al sottoscritto che esistano o escano formazioni rilevanti ancora inserite sotto questa etichetta-ombrello cascadiana; e d’altro canto negli anni è sempre stato condivisibile il pensiero che il suo essere simile concettualmente e poeticamente (per quanto, più spesso che no, non musicalmente) al Folk Metal abbia in un certo senso attirato gli ascoltatori più estremi provenienti da un genere a quel punto già estremamente inflazionato e tremendamente popolare. Ma come spesso accade, chi compone musica è molto più occasionale del fan stesso e, pertanto, dopo qualche uscita discografica prodotta vuoi per una semplice infatuazione momentanea al tema e allo stile (per quanto verosimilmente sincera) o rilasciata tanto per cavalcare l’onda che sia, il sipario è calato piuttosto rapidamente anche sul genere musicale che doveva essere ed è stato la voce in note della Cascadia, quella di un certo e palpabile naturalismo in musica. Probabilmente la massima espressione rimasta di Black Metal americano in grado di sprigionare tutto il misticismo recondito della natura, della contaminazione per esprimere l’incontaminazione, è data proprio dai Wolves In The Throne Room: band che forse non per caso mai si è esplicitamente associata al movimento programmatico appena descritto e che al contrario, priva di troppe bandiere, si è sempre limitata a fare musica di enorme e sempre crescente qualità senza aver bisogno di etichettature strane o esotiche per vendersi su un mercato che inevitabilmente collassa sul più bello.
Un ulteriore tema di riflessione che offre dopo dieci anni l’ascolto dei diversissimi brani pubblicati a nome Moss Of Moonlight (penso alle grandi differenze che separano e allo stesso tempo legano cose come la sciamanica “Existent No More”, l’enfatica “Cascadia”, la quasi orientaleggiante “Zen” e l’ambiziosissima “The Trail Beyond The Dying Sun”, solo per rimanere sul debut in oggetto) è inevitabilmente correlato in parte all’evoluzione ed estinzione di questo stesso tipo di sonorità nel panorama musicale ma anche all’impatto che un prodotto innegabilmente riuscitissimo come “Seed” aveva avuto su di me per originalità due lustri fa, alla sua uscita, e quello meramente emotivo che riesce ad avere ancora adesso. A pochi mesi di distanza dalla sua prima pubblicazione scrissi già di questo disco su altri lidi e condensando si potrebbe dire che con gli anni il giudizio complessivo è sì rimasto molto alto, ma è stato comunque soggetto ad un leggero calo dovuto soprattutto all’impossibilità di testimoniare sviluppi concreti e ancor più grandi di premesse tanto importanti – e che tuttavia rimangono fisiologicamente quelle di un debutto. Diciamo, se vogliamo, che la magia e quello stupore per aver trovato un tesoro abilmente sotterrato tra il muschio e il terriccio di una terra lontana sono andate un po’ a disperdersi proprio perché si è inesorabilmente affievolita quella sensazione di essere di fronte ad un movimento nuovo e unico, ancora predetto e destinato a lasciare un segno tra le varie diramazioni del Black Metal. Pertanto, quello che rimane ascoltabile dopo dieci anni nelle dieci tracce che compongono l’ora e cinque minuti realizzata dai due coniugi come propria ancora incredibile opera prima (tale anche solo per fattezze e per l’uso così cospicuo alla radice di quella materia folkloristica di sicura ispirazione tanto Panopticon -nello stesso 2012 già da un anno forti di “Social Disservices” e in arrivo all’apice del sorprendente “Kentucky”– quanto europea, così come all’Europa guardavano per ammissione altri numi tutelari come gli Agalloch), è un prodotto ancora esteticamente eccezionale nei suoi profondi dualismi e in tutta la feroce passione che ne trasuda sia quando viene elettrificata che quando esplorata da una componente Neo-Folk aliena al resto del Cascadian Black Metal – ma proprio per questi stessi motivi lasciato leggermente vuoto e desiderante. Proprio perché monco di un autentico e più focalizzato sviluppo che non fosse soltanto il consolidamento subito ribadito nella pregevole appendice “Winterwheel” l’anno dopo, appena prima del silenzio e del cambio di forma, composto in tutta la sua udibile alterità famigliare da un duo di persone che continua a fare musica con risultati estremamente alterni (come nel pur buono “The Intimate Earth” del 2021) ma che per qualche motivo non sembra più avere la fiamma di un tempo: quella carica irripetibilmente primordiale che rendeva (e rende) i Moss Of Moonlight di “Seed” un’entità quasi intoccabile.

Al netto, dunque, di queste fin troppo lunghe e forse sterili elucubrazioni mentali è assolutamente consigliato ascoltare e riscoprire questo grande album in generale; doveroso e quasi obbligatorio, poi, se state scoprendo o riscoprendo i più originali e particolari intepreti di questo sottogenere musicale curiosamente rimasto ai margini di una pure luminosa fiammata nel buio. Non si può dire né ripetere abbastanza quanto tracce come “Existent No More” esprimano ancora oggi e allo stesso tempo una rabbia ed una delicatezza uniche nel genere, mentre all’intero di “Zen” possiamo ammirare in eterno il contrasto formato da sferzanti up-tempo e lunghe e sognanti trame solistiche incredibilmente vicine all’etereo; la presenza dei violini rimane ben calibrata ed azzeccata (ascoltare “Together, United” per averne un esempio di rara bellezza), così come la scelta di alternare uno scream particolarmente acido e strillante a voci femminili calde, calme ed accoglienti -con una consistenza introvabile nei colleghi americani- qualcosa di assolutamente vincente. “Seed” è infatti un disco che riesce a crescere canzone dopo canzone nonostante una già grandissima partenza, e ad esprime addirittura il proprio meglio nella sua parte finale confezionando alcuni dei brani più impegnativi sia sotto l’aspetto emotivo che sotto l’aspetto compositivo; tutti gli episodi da “Call Of The Mountain” in poi sono un crescendo da togliere il fiato che si conclude con quella “The Trail Beyond The Dying Sun”, traccia di quindici minuti dove è possibile ascoltare letteralmente di tutto a partire dagli strumenti popolari fino ad arrivare ai più moderni sintetizzatori, passando poi attraverso irreali intrecci di un Black Metal melodico che sfociano in siparietti Ambient e folkloristici spesso riempiti dagli strumenti a fiato e da un tonalmente pacato comparto vocale.
Concludo dunque questa retrospettiva di dovuta celebrazione per una vera gemma consigliando in particolare l’ascolto dell’inno “Cascadia” quale vera e propria testimonianza di ciò che fu un sogno; canzone che, oltre a palesare dal titolo la sua importanza, consente soprattutto di apprezzare distintamente sia il lato più drammaticamente Dark (sfortunatamente troppo poco esplorato in un percorso lasciato per troppi versi interrotto) che quello Folk/Black che continua a caratterizzare più propriamente la grande musica dei Moss Of Moonlight: esempi di come tantissime siano state e siano le band che hanno voluto incoronare la natura regina del proprio suono, eppure di quanto rare siano quelle che sono alla fine riuscite a darne voce, a renderla emozionante e viva all’interno della mente dei propri ascoltatori.

Giacomo “Caldix” Caldironi

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